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IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE E IL MUSEO DELLA PAGLIA DI SIGNA

Quando iniziai a lavorare come accompagnatrice turistica nel 2011, il mio primo tour fu proprio in Toscana.

Ero reduce da un soggiorno studio a San Pietroburgo, il ghiaccio si era appena scongelato in un timido accenno di primavera sulla Mojka, quando a maggio mi trovai di punto in bianco immersa tra le verdeggianti colline di Siena.

<<Sei stata a Firenze? Conosci Siena e San Gimignano, vero?>>

<<Certo!>> avevo esclamato sbeffeggiante al tour operator che puntavo da anni. (Qualsiasi cosa pur di lavorare per lui!).

Mi fiondai di corsa in libreria a Milano e feci scorta di guide sulla Toscana. A Siena e a San Gimignano non ero mai stata, mentre a Firenze sì, ma un conto è andarci da sola in vacanza a quindici anni, un altro con cinquanta turisti francesi che si aspettano che tu sappia tutto.

Beh, la primavera in Toscana era molto diversa da San Pietroburgo, per quanto io amassi  San Pietroburgo (i primi amori non si dimenticano mai).

L’aria profumava di farfalle, e io mi innamorai di Firenze e della campagna toscana. Non me ne rendevo conto, ma i guanti di pelle, le borse di cuoio, la carta marmorizzata, i cappelli di paglia e i dipinti della cupola incorniciata di papaveri esposti in Piazza Pitti mi parlavano di un’immagine romantica che avevo nel cuore fin dall’infanzia.

Quella di una giovane spensierata, vestita di bianco, nel sole, con in testa un cappello di paglia e un papavero appuntato sul nastro nero, le cicale come canzone.

I girasoli sullo sfondo, i cipressi immancabili con il loro verde cupo, splendidi e rassicuranti. La Toscana è una cartolina che tutti abbiamo nel cuore, anche se non ci siamo mai stati. Piccole cappelle accovacciate sul dorso verde del paesaggio, il rintocco delle campane, sfocato d’azzurro (reminiscenze di Pascoli). Siamo schiavi della vita odierna, ma la terra di Toscana ci restituisce la libertà di una volta, le domeniche di sole, il calore di casa, il cielo alto su fondali dipinti con maestria nel Quattrocento.

Ecco cosa c’è, per me, dietro a un cappello di paglia.

C’è tutto un sogno, un archetipo, una linea del tempo bordata di cipressi, che serpeggia tra le colline macchiate di papaveri rossi. Un cappello di paglia è un volo di fantasia.

Storia del cappello di paglia di Firenze

L’arte della cesteria e dell’impagliatura ha le sue radici in tempi lontani, ma è nel Cinquecento, in Toscana, che la lavorazione raggiunse un tale elevato livello di raffinatezza, tanto da portare il Granduca Cosimo I de’ Medici (1519-1574) ad offrire in dono cappelli di paglia ai suoi ospiti di rango aristocratico.

Nel Settecento, il cappello di paglia, conosciuto come leghorn, era molto richiesto dalla clientela straniera:  imbarcato sui navicelli lungo il Canale dei Navicelli, salpava dal porto di Livorno verso l’estero.

Molti terreni nei pressi di Signa, vicino Firenze, furono disboscati espressamente per la coltivazione della paglia per i cappelli.

La linea ferroviaria di Firenze-Pisa-Livorno fu inaugurata dal Granduca Leopoldo II Asburgo-Lorena nel 1844 e favorì considerevolmente la commercializzazione del cappello di paglia.

L’economia del cappello di paglia di Firenze  entrò in crisi nel 1885 con la concorrenza cinese e di nuovo nel secondo dopoguerra: a Signa, vicino Firenze, tutti erano impiegati nella produzione del cappello. L’offerta superava la domanda. Altri poli di produzione, inoltre, come Fermo nelle Marche e Marostica nel Veneto facevano concorrenza a Firenze, ma il rivale più forte restava la Cina.

Ciò nonostante, la memoria del cappello di paglia rimase ben impressa nella società europea, come ricorda l’operetta di Nino Rota (1911-1979) “Il cappello di paglia di Firenze”, messa in scena per la prima volta a Palermo il 21 aprile 1955, con grande successo. La trama è semplice e spassosa: un giorno, a Parigi, un cavallo si mangia il cappello di paglia di un’avvenente signora. Il proprietario del cavallo, Fadinard, con un certo imbarazzo, parte alla forsennata ricerca di un cappello di paglia fiorentino uguale a quello inghiottito dal cavallo, e setaccia tutte le boutiques di Parigi, per riparare al torto subito dalla bella madame. Ci sarà il lieto fine? Mais oui!

Nel 1986, è stato costituito il Consorzio “Il Cappello di Firenze”, nell’ambito dell’Associazione degli Industriali della Provincia di Firenze. Il Consorzio associa le principali aziende del settore, eredi dell’antica lavorazione della paglia che ha avuto nella zona di Signa la sua massima espressione.

 

Domenico Michelacci e il metodo di lavorazione della paglia

Nel 1714, Domenico di Sebastiano Michelacci giunse a Signa da Gallata, in provincia di Forlì. Dopo diversi esperimenti, nel 1718 selezionò il grano marzuolo, detto anche gentil rosso (Triticum aestivum), noto fin dall’età degli antichi romani, per la produzione dei cappelli.

La semina avveniva disponendo i chicchi molto vicini tra loro, a poca profondità, in modo tale che la pianta crescesse esile e lunga. Prima che il grano arrivasse a maturazione, la pianta veniva strappata da terra con tutta la radice, affinché la linfa si mantenesse all’interno dello stelo e lo rendesse più flessibile.

Dopo la raccolta, il processo di lavorazione prevedeva diverse fasi: la soleggiatura, la sfilatura e la selezione.

Lasciata a seccare per tre giorni al sole, la paglia dorata veniva raccolta ancora inumidita della guazza mattutina (la guazza in Toscana è la rugiada). Una volta che l’acqua era evaporata, il filo di paglia selezionato era pronto per la macchina agguagliatrice. I mazzetti di paglia, le manate, venivano comprati dai fattorini che le distribuivano alle donne per la lavorazione.

Il primo opificio per la produzione dei cappelli di paglia venne fondato a Signa nel 1735.

 

Le donne e il lavoro: le trecciaiole, le bigherinaie, lo sciopero

Il cappello di paglia fu la manna dal cielo delle donne del territorio fiorentino: intrecciare la paglia era un lavoro che poteva essere svolto in casa e veniva retribuito. Ciò permetteva alle donne di guadagnare, pagare l’affitto, contribuire all’economia famigliare senza uscire da casa e in certi casi, di provvedere esse stesse alla loro dote.

La professione delle trecciaiole fu a domicilio fino all’Ottocento, quando il loro lavoro si trasferì nelle fabbriche.

Le trecce lavorate dalle trecciaiole potevano essere a stuoia, o a fantasia. La stuoia era tradizionalmente impiegata per il cappello di paglia di Firenze, e presentava andamento liscio e regolare. La fantasia invece comprendeva almeno un centinaio di varianti, spesso ispirate ai ricami e ai tessuti. La lavorazione fu manuale fino alla fine dell’Ottocento, quando vennero introdotte delle macchine da cucire per ultimare i cappelli, che venivano modellati su una forma in legno, alla quale il cono cucito veniva fatto aderire con un apposito ferro da stiro.

Nella prima metà dell’Ottocento, a Fiesole lavoravano le bigherinaie. Queste donne non lavoravano la treccia come facevano le trecciaiole a Signa, ma i “bigherini”, una specie di passamaneria, inventata a Wohlen, in Svizzera. I bigherini univano la paglia alla seta, il cotone, il crine e altri materiali; a differenza della treccia, si lavoravano a telaio. Come le trecciaiole, anche le bigherinaie dapprima lavoravano a domicilio, poi entrarono in fabbrica alla fine dell’Ottocento. L’industria fu molto fiorente a Fiesole fino al Novecento e permise alle bigherinaie di avere una certa indipendenza economica.

A causa della concorrenza cinese che offriva prodotti a prezzi ribassati, le donne subirono una riduzione del salario (la paga passò da 2-8 lire al giorno circa a 50 centesimi al giorno).

Il 15 maggio 1896, le trecciaiole organizzarono il primo sciopero della loro storia. Famosissimo il gesto della trecciaiola Barsene Conti, che si sdraiò per protesta sui binari del tram, carico di cappelli di paglia. Anche le tabaccaie di Firenze e le fiascaie di Empoli si unirono alla protesta.  Barsene Conti scontò un anno in prigione. Le proteste delle donne durarono per mesi, ma purtroppo i salari non vennero aumentati.

 

Visite guidate personalizzate al Museo della Paglia di Signa

Il Museo della Paglia è stato aperto nel 1997 a Signa, a pochi chilometri da Firenze. La nuova sede espositiva, inaugurata nel 2023, raccoglie una splendida serie di cappelli, manufatti, abiti, e macchinari da lavoro, che raccontano e valorizzano la storia locale ed autentica del territorio, soffermandosi sulla figura di Domenico Michelacci e il ruolo chiave delle donne trecciaiole. Il Museo custodisce anche la Sala della Manifattura, dove sono esposte opere in terracotta prodotte a Signa.

Il Museo è facilmente raggiungibile in treno da Firenze, dista dieci minuti a piedi dalla stazione ferroviaria.

Per informazioni su visite guidate personalizzate al Museo della Paglia di Signa scrivere a:  info@myfloraguide.com

 

Un cappello di paglia per My Flora Guide

Nel 2023, ho sentito il desiderio di personalizzare il logo di My Flora Guide e ho contattato Emma Fontana, una giovane ragazza elegante e graziosissima che ha saputo tradurre in disegno la mia fantasia.

Il cappello di paglia dal nastro nero, con un papavero rosso appuntato, rappresenta esattamente la mia idea di Toscana, la mia favola fiorentina, e il mio amore per i giardini, la lentezza, e – perché no? – mi ricorda anche il mio film preferito, Via col Vento!

Lorenzo il Magnifico saggiamente scriveva:

“Cerchi chi vuol le pompe, e gli alti onori

le piazze, e i templi, e gl’edifici magni,

le delizie, il tesor, quali accompagni

mille duri pensier, mille dolori.

Un verde praticel pien di bei fiori,

un rivolo che l’erba intorno bagni,

un augelletto, che d’amor si lagni,

acqueta molto meglio i nostri ardori.”

(Sonetto XXX del Commento)

… Con in testa un bel cappello di paglia di Firenze… è ancora meglio.

Vi aspetto al Museo della Paglia di Signa!

 

LINK UTILI:

Museo della Paglia di Signa:  https://www.museopaglia.it/

Consorzio “Il Cappello di Firenze”: https://www.ilcappellodifirenze.it/

Emma Fontana @laemmina (Instagram)

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